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Simili nella volontà di puntare all’elettrico, ma diversi nei modi e nelle strutture. E con gli USA che sperimentano un nuovo protezionismo “green” 100 anni dopo il primo: ecco la transizione energetica ai due lati dell’atlantico
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Sia l’Europa che gli Stati Uniti si sono impegnati nella strada, apparentemente senza ritorno, della transizione alla mobilità elettrica.
L’UE ci è arrivata prima, con il Green Deal e il fit for 55, ma Washington ha accelerato negli ultimi tempi, dopo che alcuni dei singoli stati federati, in primis la California, avevano annunciato di passare all’elettrico in tempi simili a quelli del Vecchio Continente. Due provvedimenti simili nei fatti, ma che nascondono velocità e caratteristiche diverse.
GLI USA ACCELERANO
Arrivati in ritardo in queste decisioni, probabilmente a causa dell’amministrazione di Donald Trump ma non solo, gli Stati Uniti hanno deciso di accelerare per quanto riguarda la transizione energetica, non senza controversie interne e polemiche, esattamente come ce ne sono in Europa.
La California è stata la prima ad aver annunciato che nel 2035 sul suo territorio potranno essere vendute solo elettriche, seguita a ruota dallo Stato del New York e dai vicini e da diversi altri stati federati, fino ad arrivare al governo centrale. Solo il Wyoming, lo Stato americano dove ci sono meno elettriche e fortemente legato al petrolio, ha per ripicca fatto l’annuncio provocatorio di bandire le elettriche.
A fine 2021, infatti, l’amministrazione Biden ha presentato un gigantesco piano per l’auto elettrica, parte dell’ancor più grande piano di 1.000 miliardi di dollari per la riforma delle infrastrutture. Washington ha riservato 7,5 miliardi di dollari alle colonnine per 500.000 stazioni di ricarica nuove in tutto il territorio, e altri soldi sono destinati al restyling di quelle esistenti.
Oltre a questo, forti incentivi ai cittadini fino a 12.500 dollari per l’acquisto di elettriche (ma, lo sappiamo, solo quelle costruite negli USA, cosa che ha fatto arrabbiare e non poco Bruxelles). E ancora, una catena completa per la produzione delle batterie e l’approvvigionamento dei minerali, in questo caso dichiarazione di “guerra” alla Cina, come già sta avvenendo per i chip.
L’obiettivo è quello di raggiungere il 50% di vendite elettriche entro il 2030, obiettivo ambizioso ma non impossibile: nel 2022, infatti, le immatricolazioni di EV erano il 5,8%, in forte crescita rispetto al 2021, con quasi 1 milione di unità, e la previsione è che nel 2023 si faccia ancora meglio.
UN PROGRAMMA IN PUNTI
Accelerando ancora di più, a febbraio 2023 Biden ha presentato un vero e proprio standard da rispettare per i produttori di colonnine, al fine di assicurarsi che siano sempre funzionanti e disponibili ed evitando le brutte sorprese.
Il provvedinento della Federal Highway Administration riguarda tutte le colonnine finanziate a livello federale in tutti e 50 gli Stati, a Washington DC e anche a Porto Rico, al fine di recuperare il ritardo con l’Europa: negli States sono poche le colonnine autostradali, rispetto all’Europa.
Dovranno quindi funzionare sempre, con una manutenzione costante da parte degli operatori; essere facilmente accessibili con indicazioni chiare su posizione e prezzi. E soprattutto dovranno essere attivabili con carta di credito, ponendo fine al ridicolo giogo delle app e delle card RFID.
IL RUOLO DEI PRODUTTORI
Non solo il governo, ma anche i produttori – che dal governo sono del resto incentivati. Da una parte Tesla, già leader nella produzione di elettriche ma paradossalmente svantaggiata dal provvedimento conservativo relativo agli incentivi, visto che ha fabbriche in Cina ed Europa. Ford e General Motors hanno invece dato avvio ad enormi piani di conversione che ha già portato a tanti frutti: la Blue Oval è subito dietro Tesla per immatricolazioni di elettriche, grazie a F-150 Lightning e Mustang Mach-E.
Anche General Motors si è data da fare, dopo anni di scetticismo: la Chevrolet Bolt piace agli americani (e piacerebbe anche agli europei), così come grande successo ha avuto l’Hummer elettrico e ancora la Cadillac Lyriq, prima elettrica dello storico marchio di lusso.
I produttori locali sono insomma avvantaggiati dalle leggi, dai finanziamenti statali, e da una grande disponibilità economica, e che del resto riflette la posizione americana: pur in declino, la superpotenza dispone ancora di risorse infinite. Soprattutto il vantaggio sull’Europa è l’assenza di una burocrazia “bizantina” che invece caratterizza l’apparato di Bruxelles.
L’UE È LENTA
L’Unione Europea è partita prima, ma è più lenta, e ciò si deve alla sua struttura. Gli Stati Uniti sono una nazione unica, con un forte governo centrale che ha un peso rilevante sui singoli stati, anche se questi ultimi hanno una loro forte autonomia.
Diverso è il caso dell’UE, che soffre una struttura ancora legata agli albori, e che le impedisce di intervenire a livello legislativo come vorrebbe: gli europei sono ancora fortemente indipendenti. Al pari delle sue lingue, inoltre, l’UE è diversa nelle singole economie e nei singoli governi, i quali tra l’altro godono anche del diritto di veto.
Per questo l’approvazione definitiva del fit for 55 ci ha messo molto ad arrivare, ed è ancora più difficile avere una risposta veloce al piano americano che, di fatto, ha escluso tutti i produttori europei.
MANCA L’UNITÀ
Quel che manca è, insomma, l’unità. E averla aiuterebbe anche sul piano economico: abbiamo visto l’enorme investimento che ha deciso di fare il governo statunitense, il più grande piano contro i cambiamenti climatici mai realizzato.
In questo senso, l’Europa non regge il confronto. Nonostante i fondi dedicati ai vari “PNRR” siano altissimi, sono i singoli paesi a decidere quanto stanziare e per cosa, pur dovendo seguire delle direttive. E questo comporta velocità molto differenti da paese a paese, oltre a gestioni diverse delle infrastrutture, e diverse qualità.
Al momento, per esempio, da Bruxelles non sembra poter arrivare una direttiva che regoli il loro funzionamento, o che imponga una manutenzione costante, e questo anche se la gran parte delle colonnine europee sono co-finanziate dall’UE.
Inoltre, sembra mancare una vera consapevolezza del cambiamento degli equilibri, segnato proprio dal neo protezionismo statunitense. Il dibattito che è nato dopo l’approvazione dell’IRA ha portato a una sorta di compromesso, con una riorganizzazione del quadro normativo per gli aiuti di Stato per arrivare a un Fondo di Sovranità europeo che, però, va ancora definito. Questa cosa avviene molto in ritardo, quando le due superpotenze (non solo USA, ma anche Cina) hanno investito centinaia di miliardi di dollari.
STRATEGIA SBAGLIATA?
Non è che all’UE manchino i soldi. Corrispondono a circa 672 miliardi di euro i fondi destinati alla transizione, destinati ai singoli paesi: circa il 53% è andato alla Germania (9% del suo PIL), il 24% alla Francia (6% del suo PIL). Anche i paesi più piccoli e meno popolosi, come Finlandia e Danimarca, hanno ottenuto sussidi pari rispettivamente al 9,4 e all’8% del loro PIL.
L’Italia ha sbloccato fondi minori, il 7% del totale e pari al 3% del suo PIL. Non che sia poco, e anzi anche coi fondi propri il Bel Paese ha oggi uno dei più alti tassi di colonnine: non è più indietro nelle infrastrutture, quanto nella diffusione dei mezzi.
L’UE ha insomma sviluppato una buona leadership nel regolamentare e nel definire una buona strategia contro il cambiamento, ma quello che manca è la diffusione delle sue tecnologie. Anche perché parte svantaggiata rispetto agli altri giganti, non solo perché meno unita, ma anche perché più dipendente da altri: se poi ci si mettono misure protezionistiche, può essere un problema.
A poco può valere fare annunci di riportare la produzione qui: serve forse più forza, maggiori incentivi e soprattutto un cambiamento nella struttura stessa dell’Unione. Se è ormai chiaro che non si tratta più di una confederazione, se la strada vuole essere questa (con tutte le obiezioni che ci possono essere), allora forse bisognerebbe fare sul serio, ridurre il potere di veto dei singoli stati e procedere per una politica unica.
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23/02/2023
fonte: FLEET Magazine